L’ultima marea

Alle vittime del terremoto dell’11 Marzo 2011

ultima mareaIo sono Takumi. Takumi Miura. Ringrazio gli Dei per avermi salvato, per avermi permesso di venire qui.

Ma da solo, senza la dolce Tae al mio fianco. Lei ora è parte della terra. Inghiottita dalla terra. E con lei i nostri figli.

Ho udito le loro grida mentre l’asfalto dell’autostrada si apriva sotto l’auto che li portava da me.

Un’ultima magia di quella tecnologia che ci permette di sentire vicino anche coloro che sono a molte miglia da noi. Ma come insegna ogni fiaba una magia ne cancella un’altra. Udire l’ultimo Ti amo dalla voce di colei che standomi accanto ha dato un senso a ogni giorno della mia vita, l’ho pagato con l’orrore di sentire la morte rotolare nei timpani e scivolare fino al cuore. Voi non potete saperlo, se mai l’avete provato: è come morire, ma senza la parziale ricompensa della pace che morendo viene concessa. Uno strazio che prosegue incessante per ogni minuto che ti resta da respirare l’aria di questa terra.

L’auto di Tae è come la mia. Quella che la pubblicità dice che “è come una calamita sull’asfalto”. Illusioni… presunzioni umane, ancora magie tecnologiche. L’avevo scelta perché pensavo potermi comprare la sicurezza. Che te ne fai di una calamita per qualcosa che ti si sbriciola sotto le gomme… Come può l’uomo addomesticare un pianeta e le energie che lo governano…

Certo.

Io lo so: la sicurezza non esiste.

Esiste solo un area di probabilità che un evento si verifichi o meno.

Non solo.

Va stabilito se quell’evento è davvero negativo. Che danno arrecherà.

E a chi.

Io lo so: lavoro a Fukushima.

Sono l’ingegnere capo della squadra che si occupa della sicurezza alla centrale nucleare.

E a Fukushima di sicuro non c’è più nulla.

Adesso sono qui, ho percorso l’autostrada che porta al mare e mi sono seduto sulla sabbia tiepida, ne posso sentire il calore affondando la mano nel suo manto morbido.

Sono qui e ora vedo. E voglio che vediate anche voi. Pochi minuti fa ho guardato il mare scomparire come se fosse risucchiato nel regno degli Oni. Ed è di là che sta tornando. Lo vedo. È come un solo muro d’acqua che si estende per miglia, guardatelo a quale folle velocità si avvicina…

Ne avete forse paura? Io no. Io sono qui per questo. Tae, amore, arrivo.

Mi porterà da te l’ultima marea.

bzzzzzzzzzz

– Impressionante, Hutch! Dove hai presto questa roba?

– Sì, Ray… impressionate è dir poco… l’ho recuperato nell’ultima immersione giù alla barriera corallina. Il DVD era dentro a una videocamera a tenuta stagna.

– 11 marzo 2011… è rimasta là sotto per più di novant’anni.

– Già, Beth. Non so che farne. Tu che dici?

– Potremmo portarla al Dipartimento di Storia dell’Università di Sidney: è quasi un reperto. Insomma… è una specie di messaggio nella bottiglia che viene dal passato!!!

– I giapponesi, che razza di gente. Scegliere di vivere sull’incrocio di quattro placche tettoniche! E costruirci case, fabbriche e centrali nucleari!

– E cosa sono le centrali nucleari?

– Ray, fratellino, sono qualcosa che ha sempre creato un sacco di problemi.

– Uh! Ma i giapponesi… come li hanno risolti?

-… risolti? No. Non risolti.

Il Giappone non esiste più.

 

29 ore per Elisabetta Cametti

Torna Elisabetta Cametti e, a sorpresa, lo fa con un personaggio completamente nuovo: chi si aspettava il ritorno di Katherine Sinclaire, l’eroina della saga di “ Nel mare del tempo” e “I guardiani della storia” dovrà farsene una ragione, ne “Il Regista” la scena è tutta per Veronika Evans.

Fotoreporter, newyorkese, resa celebre per i suoi scatti che sbattono in faccia alla grande mela quel degrado umano che non finisce mai sotto i riflettori della cronaca o dei talk show, Veronika Evans viene ingaggiata in una lotta contro il tempo da colui che impareremo a conoscere come il Regista.Elisabetta_giacca nera_libro_3_low

Le atmosfere sono quelle classiche del thriller, Elisabetta Cametti mette il lettore al centro di quello che a tutti gli effetti è un set cinematografico; gli eventi si rincorrono scanditi dal countdown che in testa a ogni capitolo sottrae il tempo al confronto che vede Veronika e il Regista misurarsi su più livelli, da quello psicologico a quello strettamente personale.

Il cadavere privato dei bulbi oculari e con il volto nascosto da una reflex ritrovato all’interno di un furgone in un area suburbana di New York all’apertura del romanzo, è solo la prima delle vittime che ne costelleranno le pagine; l’indagine affidata alla Barbara Shiller profiler del NYPD, si rivela fin da subito un rompicapo apparentemente irrisolvibile e viene condotta dalla poliziotta come una sfida nella sfida proprio nei confronti di Veronica che da sospettata si troverà nella scomoda posizione di colei che dovrà fronteggiare la verità.

La narrazione scorre veloce accompagnata da una prosa diretta ed essenziale capace di delineare personaggi e situazioni in poche righe; Elisabetta Cametti, lei sì vera regista, confeziona una storia che non lascia spazio a cadute di ritmo né a pause fino alla soluzione dell’enigma che verrà svelata solo a poche pagine dalla fine.

Ne “Il Regista” troviamo tutto ciò a cui l’autrice ci ha abituati: intrigo, suspense, colpi di scena e il suo “legame” con la lettera K (presente nel nome anche della protagonista di questo romanzo) il tutto unito all’approfondimento psicologico che rende avvincente e credibile la partita giocata tra il Regista e Veronika.

E non stupitevi, se dopo l’ultima pagina, davanti all’obiettivo di una reflex non vi sentirete più così tanto tranquilli.

Il Regista

29 ore per non morire

di Elisabetta Cametti

Cairo publishing

Novembre 2015

pagg. 328

Euro 18,90

Disponibile in ebook

Euro 9,99

E’ tornato il Natale…

xmas 2015…e vi sentite tutti più buoni, vero? I pacchi sono sotto l’albero e i bambini attendono di scartarli.

Cosa ci avete messo dentro? Libri? Giocattoli? O quei buffi personaggi così innocui e divertenti?

Siete davvero sicuri che lo siano?

Vi lascio con questa domanda e con la storia di qualcuno che la risposta l’ha trovata.

A proprie spese.

Ancora, buon Natale.

Eroi

di Fabio Mundadori

 

 

Quaranta gradi. L’estate più calda che si ricordi in città negli ultimi 10 anni.

L’asfalto rovente trasuda bitume, pare sul punto di liquefarsi.

Nelle ore più calde le strade diventano deserte: unici esseri viventi, randagi con la lingua penzolante a caccia d’improbabili zone d’ombra e gatti pietrificati dal calore.

Il ronzio cessa d’improvviso.

– No! Dannazione! Dannazione!

Il condizionatore si è guastato.

Ecco, un’altra prova che la malasorte lo perseguita!

Ma no, no! Lui, lui lo sa: la malasorte, la sfortuna, tutte sciocchezze!

È una punizione, la punizione divina!

Prega il Signore di perdonarlo per il suo essere imperfetto, tanto imperfetto da non consentirgli di portare a termine La Missione assegnata.

Ma ci riuscirà, sì, a scovarla, a trovarla.

Riuscirà a intrappolare colei che, ne è certo, si nasconde lì tra loro: la madre dell’Anticristo!

Deve però farlo subito, prima che diventi adulta, mentre i suoi terribili poteri sono ancora latenti, affrontabili da un essere umano: una volta donna, sarebbe stato tardi.

Troppo tardi!

Sospira, quale fardello sapere che i destini dell’umanità e della Chiesa dipendono da lui.

Ha attraversato tutto il paese di città in città per catturarla, ha combattuto e ceduto alle tentazioni del maligno e della sua stirpe, ma ogni volta, più forte di prima, si è rimesso in caccia.

La scia di piccole vittime che ha lasciato dietro di sé è un sacrificio necessario: il Signore l’ha già perdonato.

Lo protegge anzi!

Gli garantisce l’impunità.

Oramai si trova lì nella nuova città da quasi un anno, ha osservato e poi avvicinato alcune piccole sospette. Sì, è chiaro: una di loro è la piccola demone che diventata fertile accoglierà nel proprio grembo chi avrebbe sfidato il regno del Signore in terra per attaccarlo poi in Paradiso stesso.

Lui, però, era lì per impedirlo!

Tutto è pronto, agirà quella sera stessa. La temperatura si sta abbassando e le bambinette tra le quali il maligno ha nascosto la propria pupilla iniziano a riempire il giardino sotto casa.

Si sorprende con la salivazione accentuata e a soffregarsi le mani. Recita rapidamente una preghiera in ammenda a quel gesto lascivo, ma d’altra parte non è certo colpa sua se la ricerca della piccola dannata richiede azioni che inducono un certo piacere.

Un piacere che solo in parte compensa le terribili tentazioni che deve sopportare e alle quali purtroppo cedere, ma ora basta, è giunto il momento di agire.

Avrà tutto il tempo per pregare in favore della propria anima al termine della missione.

E sistemerà anche quel dannato condizionatore.

Indossa il suo migliore e rassicurante sorriso ed esce di casa.

È sera inoltrata quando rientra.

Fallito! FallitoFallitoFallito!

Ha ancora fallito! Lei non doveva gridare! Non doveva! I demoni non hanno paura! Non era lei! Tutte avevano gridato quando…

Quando…

…sempre avevano gridato, quando aveva fallito.

E anche questa volta ha fallito: è stato costretto a sopprimerla, disfarsene, non poteva rischiare di essere scoperto, mettere a rischio La Missione.

Ora dovrà affrontare le forze dell’ordine, la giustizia, come tutti gli adulti della zona del resto. Ma lui è intoccabile, lo sa: il Signore lo protegge. E poi lui è… Lui ha una certa autorità in città.

Consuma una cena frugale e si mette a letto, fuori il brusio che accompagna le ricerche della bambina comincia a riempire le vie circostanti.

Il suono del campanello lo sveglia di soprassalto, guarda l’ora: è passato davvero poco da quando si è coricato.

La polizia? Di già!

Scende le scale e raggiunge la porta. Fuori le ricerche si sono spostate verso la campagna: l’eco delle voci giunge da lontano.

– Chi è?

Silenzio.

– Chi è? – il tono è più stentoreo.

Una voce minuscola:

– Potresti aprire?

Il sangue gli si gela. Apre la porta.

Nessuno. Poi una voce ai suoi piedi.

– Hai preso tu la mia sorellina?

Abbassa lo sguardo. Un bambino biondo, gli occhi chiarissimi quasi brillano di luce propria nel buio denso.

Tono paterno.

– Bambino. Sono cose da grandi queste. Lascia perdere. Torna a casa.

Il piccolo lo fissa, le sue labbra si muovono, ma le parole sembrano scagliate dalla notte stessa, affilate come lame tirate da un lanciatore di coltelli.

– Io ti ho visto. La mia sorellina era con te. L’hai portata via. Tu sei cattivo.

Cattivo.

Cattivo?

Lui Cattivo? Il messo del Signore?

Quella bestemmia è intollerabile. Afferra il bambino per la camicia e lo solleva all’altezza degli occhi.

Grida.

– Piccolo bastardo! Ti rendi conto con chi stai parlando? Io sono il vice sindaco! Non so nemmeno chi sia la tua sorellina!

Avrebbe dovuto spaventarlo.

Non è così: il piccolo sostiene il suo sguardo fino a quando non viene posato di nuovo a terra.

– E ora vattene. A quest’ora i mocciosi dovrebbero stare a letto. E anche io.

– Anche la mia sorellina dovrebbe.

Tu sei cattivo.

E i cattivi muoiono sempre.

Gli volta le spalle e se ne va senza più guardarlo.

Ma cosa crede quel ragazzino? Di essere in un film? In un cartone animato? E poi lui non è cattivo. È in missione di guerra.

La Missione.

Meglio tornare a letto. L’indomani sarebbe stata una giornata pesante: un sacco di domande.

Poi quel ragazzino: una parola di troppo e avrebbe tolto di mezzo anche lui. Era di certo un demone se aveva potuto vederlo mentre il Signore lo rendeva invisibile.

Metterà a posto tutto domani.

E sistemerà anche quel dannato condizionatore.

Uno scricchiolio. Di nuovo sveglio. Ancora di soprassalto.

– Chi c’è? Stupido moccioso sei ancora tu?

Silenzio.

Ha passato il segno. Merita una lezione quel piccolo demone.

Apre l’armadio ed estrae il fucile a pompa carico e pronto all’uso.

Scende le scale. In fondo una voce ridicola

– Ciao bellezza!

Carote sgranocchiate.

È quel coniglio quello dei cartoni animati: quello che sgranocchia carote perennemente, comesichiamacomesichiama?

Un sogno. Sta sognando. Non deve temere nulla. Temere cosa poi. Da un coniglio?

Il coniglio si avvicina.

– Ehi!! Che cannone hai in mano! Potresti farti del male! Da’ qua! Naaaa, sei antiquato amico! Prova con queste

Ammicca.

– Sono più efficienti credimi.

Si trova nella mano sinistra un ridicolo rotolo di candelotti di dinamite, la miccia accesa si sta consumando. Trascorrono alcuni istanti. I denti sporgenti del roditore sogghignano.

Guarda come un idiota la miccia consumarsi.

Un boato e la mano non c’è più. Al suo posto un moncherino carbonizzato.

Grida per il dolore terrificante, ma nessun suono esce.

Urla, fino a sentire le corde vocali bruciare, ma nessuno ode nulla.

– Ah Ah Ah! Che idiota!!! Nemmeno quella stupida anatra col becco giallo ci sarebbe cascata. Uah, uah, uah!

– Mi hai chiamato sftupido coniglio?

Non può essere vero.

L’anatra nera è emersa dal buio del soggiorno con un saltello.

E parla.

È di certo un sogno, ma il dolore, impossibile, accecante, è reale.

Si tiene con l’altro braccio il moncherino. Non riesce a ragionare, a pensare.

L’angoscia comincia ad assalirlo: irrazionale, impossibile.

Il papero:

– Ehi, guarda il ferro! Che cannone amico! È pericolofo!

Il coniglio:

– Già! Già! – carota – Anche io gliel’ho detto, – abbassa la voce – detto tra noi però non mi pare molto sveglio. Hi, hi, hi!

Sta per impazzire o forse è già pazzo. Ma no deve solo svegliarsi.

Sì. Svegliati! Svegliati!

Nulla.

Perché il Signore non lo soccorre?

Perché lo sottopone a quella prova?

Il papero continua.

– Fì Fì, è pericolofo. Vedi amico se io faccio cofì potrebbe fuccedere…

BLAM!!

– Oh, oh!

Questa volta tocca al ginocchio. Pezzi di cartilagine, nervi e schegge d’ossa schizzano sulla tappezzeria del divano.

Il dolore lo rende folle: comincia a schiumare saliva e sangue dalla bocca.

Nessun suono esce dalla sua gola mentre grida disperatamente aiuto.

Il coniglio:

– Ehi! Il nostro amico è un po’ àfono non credi?

Il papero:

– Fì Fì! Non hai qualcosa?

– No, io no, ma vediamo in cucina.

Si sente trascinato per la collottola della vestaglia, costretto a guardare i resti della rotula penzolare dalla sua tibia attaccata dai pochi legamenti rimasti.

Non avrebbe mai più camminato. Sarebbe diventato uno storpio deriso da tutti.

E il dolore! Perché il Signore non pone fine a quel dolore insopportabile.

Lo appoggiano con la schiena alla credenza.

Vince l’ultimo brandello di razionalità e si rivolge ai due cartoon.

– Vi prego basta!

Il coniglio:

– Amico! Noi stiamo con te! Siamo qua per aiutarti. Ecco questo andrà benissimo! Se stura i lavandini sbloccherà anche le tue corde vocali non trovi?

Ignorando lo sguardo terrorizzato gli chiude il naso e gli ficca in bocca la bottiglia.

Un torrente di lava sembra scendergli per l’esofago fino a raggiungere le interiora.

Può sentire l’acido devastare i tessuti e attaccare gli organi interni.

Vorrebbe svenire, morire.

Non succede nulla di tutto questo. È ancora vivo.

Le labbra ustionate pulsano mentre prova ad articolare un:

– Basta, vi supplico.

È allora che nella stanza un’ombra enorme tinge le pareti.

Passi così pesanti da far tremare la casa intera.

Un robot gigante in un armatura nera, una V rossa sul petto avanza e lo sovrasta in tutta la sua altezza.

Lui ride.

Isterico, pazzo di dolore, ride di un riso silenzioso. Poi ode la voce metallica.

– Anche loro ti supplicavano. Le tue piccole vittime ti supplicavano. Hai forse avuto pietà di loro?

Ma i bambini hanno i propri eroi che li vendicano dai cattivi.

Tu sei cattivo e…

– …e i cattivi muoiono sempre –  continua lui nella propria testa.

Il robot alza la mano: un fascio di microonde parte diretto al viso.

Lui non vede nulla, sente solo il dolore della propria carne che cuoce: prima la pelle, poi il resto rattrappiscono attorno al cranio.

I bulbi oculari esplodono.

Il cervello si disidrata.

E poi non sente più nulla.

– Qua dentro è successo un macello. Come l’avete scoperto agente?

– Commissario, è stato il tenente De Rossi. Era passato per qualche domanda di routine sulla bambina trovata morta stanotte sul greto del fiume. Ha suonato e bussato più volte, ma nessuno rispondeva. Eravamo certi che il Vice Sindaco si trovasse in casa e abbiamo pensato che non stesse bene, così abbiamo fatto irruzione.

– Bene non sta. Che dice la scientifica?

– Da una prima ricostruzione pare sia stato vittima di un’incredibile serie di incidenti: sembra che il signor vice sindaco si sia svegliato e, insospettito da qualcosa, abbia imbracciato il fucile per poi dirigersi al piano inferiore, ma scendendo dev’essere inciampato o scivolato.

Nella caduta incidentalmente si è esploso un colpo prima alla mano sinistra, poi al ginocchio destro e arrivato in fondo alla scala si è trascinato verso la cucina.

Qua senza spiegazione apparente, forse in preda al panico o al dolore, ha ingoiato mezza bottiglia di sturalavandini.

Nel tentativo poi di rimettersi in piedi, si è trascinato sul viso il forno a microonde che si è acceso anche con lo sportello aperto: la scientifica ha stabilito che la sicura era difettosa da tempo.

– Incredibile, davvero.

– C’è dell’altro, commissario. In camera da letto del signor vice sindaco, sotto la suola di un paio di stivali, è stato trovato un brandello di camicetta compatibile con lo strappo su quella indossata dalla bambina morta.

– Non esiterei a definirla giustizia quasi divina. Almeno lo stato non dovrà pagare le spese per il processo. Ora vado in centrale. Dica a De Rossi che voglio un rapporto dettagliato.

Ok, ok, circolare, non c’è niente da vedere.

Anche tu ragazzino a casa, non è uno spettacolo per te.

Il bambino biondo, occhi chiarissimi, si china, raccoglie una mezza carota sgranocchiata, la infila in tasca e si allontana.

DOVE SCORRE IL MALE A lATINA

Gian Luca Campagna presenta Dove scorre il male: l’ultimo romanzo di Fabio Mundadori  con la nuova avventura del commissario Sammarchi.

L’appuntamento è per mercoledì 13 Maggio presso la Feltrinelli alle ore 18.00 in via Diaz 10 a Latina.

La storia

Dieci anni fa.

In una notte d’estate, un intero quartiere viene spazzato via.

Oggi.

In una piovosa mattina d’autunno due writer vengono giustiziati alle porte della capitale.

Due frammenti di un enigma che solo il commissario Sammarchi è in grado di risolvere.

Sempre se riuscirà a sopravvivere.

Dal romanzo

“Poi, mette il colpo in canna e non hai modo di capire se ciò che ti buca ossa e materia cerebrale sia piombo o solo una goccia di pioggia più pesante delle altre.”

“Io non lo chiamo tradimento. Tu sai come funziona in questo ambiente: oggi sei prezioso perché sai molte cose, domani sei pericoloso perché sai troppe cose.”

“Per quanto mi riguarda chi non merita il mio rispetto da vivo non lo merita nemmeno da morto.”

Sereno Natale

sereno nataleLa cena della vigilia di Natale vi attende?

Siete pronti ad abbuffarvi, come solo nella sera prima della festa per antonomasia accade?

Allora, mentre affilate coltelli e forchette davanti alle vostre tavolate imbandite, giungano a tutti voi i miei auguri affiché il Natale che stiamo per festeggiare sia esattamente come lo desiderate.

Vi lascio anche un pensiero: un breve racconto, narra di una cena anche se non natalizia.

Il consiglio è, qualunque sia il giorno in cui lo leggerete, cercate di farlo PRIMA di mettervi a tavola: niente di fastidioso, ma potreste compromettere la serenità del vostro pasto.

Ancora, buon Natale.

La cena

di Fabio Mundadori

– Oddio, ho lasciato la borsetta in macchina!
– Quella valigia che ti porti appresso la chiami borsetta? – dice Michele sarcastico.
– Non è una valigia, è di dimensioni adatte alle mie necessità. – risponde piccata Francesca – Stefano, mi passi le chiavi dell’auto?
– Non ti servono, vai pure: è aperta.
– Allora torno subito e non andate avanti senza di me.
– Come potremmo! – cinguetta Lidia – Però sbrigati. La zuppa, come hai detto che si chiama, Massimo? –
– Bazzoffia, mia cara, bazzoffia.
– Ecco, la bazzoffia qui, si fredda.
Francesca si alza e imbocca il corridoio che porta all’atrio della villa, si ferma un istante poco prima del guardaroba dove ha posato il cappotto – Ma no, non fa così freddo e poi starò fuori solo un attimo. – pensa, alza il collo del tubino in alpaca e cammina spedita verso l’atrio.
Apre il pesante portone, appena oltrepassa la soglia il vento umido di fine ottobre la investe.
– Forse il cappotto non sarebbe poi così inutile. – mormora fra sé, fa per tornare sui propri passi ma il legno si è già richiuso dietro di lei. Si stringe nelle spalle, dà la schiena al portone e s’incammina verso il parcheggio.
Benché sia autunno inoltrato, la temperatura non è così rigida, piuttosto l’umidità sembra voler penetrare nelle ossa attraverso ogni possibile varco aperto negli indumenti.
Un clima che le ricorda da vicino quello della sua Ferrara, la città che ha lasciato proprio la mattina con destinazione Latina.

Il viaggio sul freccia rossa fino a Roma era stato rapido e comodo, un po’ meno quello sul regionale che dalla capitale l’aveva condotta al capoluogo pontino. L’ultimo tratto l’aveva fatto in auto con Stefano e Veronica, marito e moglie, arrivati da Firenze. In effetti avrebbe potuto scendere proprio a Firenze e fare il resto del viaggio con loro; lei però, Veronica, proprio non la sopportava. Così si era inventata una scusa qualsiasi per farsi il viaggio in santa pace e sorbirsi la compagnia indesiderata solo nel tragitto dallo scalo di Latina alla villa dove si sarebbe tenuta la cena.

Francesca si ferma in mezzo al vialetto che attraversa il giardino, il buio è calato da alcune ore, i lampioncini conficcati nel terreno illuminano solo aree limitate e lei impiega qualche istante a orientarsi – Sì, di là. – dice poi a mezza voce.
Riprende a camminare, fuori dal raggio di azione delle luci regna l’oscurità più assoluta, la campagna attorno sembra essere scomparsa avvolta dalla notte e da una leggera, ma insistente, nebbia.
Alla villa si giunge svoltando dalla provinciale in una strada sterrata che dopo essersi addentrata tra i campi per almeno mezzo chilometro termina contro il poderoso cancello sormontato da una lettera P racchiusa in una corona di alloro in ferro battuto. Dietro le sbarre forgiate a mano, circondata dal muro di cinta, sta la casa colonica, accovacciata come un oscuro Cerbero nel cuore dell’agro pontino.
La donna arriva finalmente all’area del giardino adibita a parcheggio, riconosce il SUV di Stefano, apre lo sportello posteriore dal lato del passeggero, la sua borsa è dove l’ha lasciata: sul sedile; quasi d’istinto controlla che dentro ci sia tutto, poi la prende e la sistema a tracolla. Chiude lo sportello, fa per allontanarsi poi si ferma, torna verso l’auto, questa volta apre lo sportello anteriore dal lato dell’autista si sporge all’interno e preme il bottone che comanda le serrature centralizzate, uno scatto secco risuona nell’abitacolo.
– Non c’è nessuno qui, ma è meglio non rischiare. – pensa soddisfatta, richiude e torna verso la villa. Nel buio le finestre illuminate la fissano come pupille ardenti.
Affretta il passo, la temperatura bassa inizia a farsi fastidiosa e dentro si staranno spazientendo.
Per lei e gli altri commensali, dieci amici di altrettante città d’Italia, quella cena è l’evento più atteso: una cosa iniziata quasi per scherzo e trasformatasi in consuetudine.
Da ormai nove anni a turno, una volta all’anno, ognuno di loro ospita il resto del gruppo per una cena dal menu ispirato alle specialità della città del padrone di casa. L’anno precedente era toccato a lei, – che successo la sua salama da sugo – mentre quella sera il loro ospite è Massimo, proprietario della splendida dimora in mezzo alla campagna ad alcuni chilometri da Latina.
In realtà quando tutto iniziò erano in venti, un rappresentante per regione, poi il gruppo si era ridotto di anno in anno. Nessuno si era mai chiesto il perché, si trattava di una cosa normale tutto sommato: è difficile mantenere coesi i membri di un gruppo tanto numeroso e disperso sul territorio, per quanto animati da una passione comune.

Massimo aveva aperto la cena ricordando le proprie origini emiliane, quale discendente dei pionieri della bonifica.
– Questa villa l’ha costruita il nonno, sapete lui era gerarca del PNF, pensate che alla cerimonia d’inaugurazione era presente persino il duce.
Le reazioni degli altri commensali erano state le più diverse, chi aveva annuito convinto, chi imbarazzato, chi visibilmente seccato per quella citazione considerata inopportuna. Il loro ospite si era limitato a glissare su gli uni e gli altri dando il via all’ingresso delle portate.
Due camerieri erano entrati portando i vassoi degli antipasti: un profumatissimo prosciutto di Bassiano accompagnato da olive dalle delicate sfumature rosate, disposti sul bordo dei vassoi crostini di pane spalmati con paté sempre di oliva, ma di colore più scuro.
– Le olive intere sono quelle famose di Itri, mentre il paté è ottenuto da quelle non meno pregiate di Lenola – aveva spiegato Massimo.
– Questi bocconcini di mozzarella sono fantastici.
– Grazie, Veronica. Sono di bufala, li ho fatti arrivare questa mattina da un caseificio di Sabaudia.
– Ho sentito dire che non esiste la mozzarella con il cento per cento di latte di bufala. – aveva osservato Barbara con marcato accento piemontese.
– Verissimo, – era stata la conferma di Massimo – il latte delle bufale, viene sempre tagliato con una percentuale di latte vaccino, per attenuarne il gusto particolarmente aggressivo.
– Ti sei sistemato bene, ti puoi permettere anche la servitù –aveva esordito all’improvviso Lidia arrivata da Cagliari.
– Sì, diciamo che devo molto al patrimonio famigliare.
– Eh, certo, il nonno era gerarca…
– Guarda, Francesca, la tua ironia è fuori luogo. La vera manager di casa era mia nonna e se ti potesse ancora sentire ti farebbe portare via dalla Borda. Tu lo sai cos’è vero?

– sì, la Borda. – pensa Francesca, una favola usata per spaventare bambini, una creatura leggendaria, tipica delle sue terre che sembra però essere tagliata alla perfezione per quei luoghi: descritta come una strega, bendata e orribile, ha la bocca irta di denti acuminati, abita le paludi, gli stagni e i canali; si muove nelle ore buie, nelle giornate nebbiose e uccide chiunque abbia la sventura di incontrarla. Un brivido le attraversa la schiena, il freddo è diventato insopportabile, ma ormai è arrivata: davanti a lei la facciata della villa l’attende rassicurante.

– Sai qui a Latina non esiste un piatto tipico, questa terra ha fatto da crogiuolo alle popolazioni che l’hanno sottratta alle paludi, dando vita a una genia nuova, ricca di risorse ma priva di tradizioni legate a un’identità popolare. – aveva proseguito Massimo – Veneti, romagnoli, emiliani e genti del luogo sono rimasti per lungo tempo comunità isolate le une dalle altre continuando a coltivare le proprie usanze, a cucinare i propri piatti – si era preso una pausa – a crescere i propri mostri: io me la ricordo ancora la ninna nanna che mi cantava la nonna.

Ninàn, ninàn, la Borda
la liga i bei babèn cun una côrda.
Cun una côrda e cun una curdella,
la liga i bei babèn pu la i asserra,
cun una côrda e cun una ligazza,
la liga i bei babèn pu la i amazza
Appena sfumata la cantilena intonata da Massimo, nella sala da pranzo era calato un silenzio innaturale, rotto all’improvviso dalla voce di Francesca.
– Oddio, ho lasciato la borsetta in macchina!

Francesca affronta i gradoni che portano all’ingresso con una leggera corsa. L’ultimo passo però è impreciso e complice la patina di umidità depositata sulla superficie di marmo, la donna si ritrova viso a terra.
Sospira, fa forza sulle braccia e si mette seduta.
– Ma porca miseria! – impreca accorgendosi della chiazza scura che imbratta l’abito color crema appena sotto il seno.
Rialzandosi in piedi una fitta di dolore la colpisce al ginocchio sinistro – Devo averlo sbattuto cadendo. – mormora tra sé.
Con passo malfermo riesce a percorrere l’ultimo metro che la separa dal portone, preme il grosso bottone in ottone sullo stipite alla sua destra, sente il campanello risuonare all’interno.
Attende qualche minuto, ma nessuno viene ad aprire.
Suona ancora.
Nulla accade.
– Ehi! – grida – Aprite?
Nessuno risponde.
Afferra uno dei pesanti battenti in bronzo e lo lascia ricadere contro il portone.
Ancora nulla.
Solleva di nuovo il battente e bussa più volte.
– Lo scherzo non mi diverte! Aprite!
Alcuni istanti, nessun rumore. Niente.
– Cazzo! – ringhia.
Apre la borsetta, rovista fino a quando non recupera il cellulare.
Forse il freddo, forse la rabbia le fanno tremare la mano mentre compone il numero sul touch–screen, ma alla fine riesce a chiamare Lidia.
Il tono di chiamata risuona nell’orecchio, una, due, tre… sei volte.
Nessuna risposta.
Francesca non demorde e ripete la chiamata.
Al terzo squillo qualcuno risponde.
– Allora! Siete sordi? Volete aprirmi?
La voce di Lidia ha un tono strano.
– Francesca, scusami, non so se…
– Lidia, che c’è da sapere? Aprite e basta.
– No guarda, preferisco non intromettermi.
– Ma intrometterti in cosa?
– Dai Lidia, torna a tavola, questo spezzatino di annutolo bufalino al vino rosso è spettacolare. – sente la voce di Stefano dire in lontananza.
– Ora ti lascio.
– Lidia, no!
– Li senti? Mi chiamano.
– Lidia? Lidia!
Silenzio.
– Deve essere un incubo. – pensa – Prima quando sono caduta ho battuto la testa e ora sto sognando, è per forza così.
Il freddo però è reale, si stringe nelle braccia per scacciarlo, con scarsi risultati.
Decide di ritentare con il cellulare, chiama Stefano: prima sembrava non sapere con chi parlasse Lidia.
Questa volta rispondono al primo squillo.
– Stefano, per favore, sono rimasta chiusa fuori e…
– Sono Veronica, Stefano è a tavola. – dice la voce glaciale.
– Sì, capisco, ma vedi, come dicevo, sono qua all’esterno della villa.
– Ma davvero? E come mai?
Francesca rimane interdetta, una domanda è l’ultima cosa che si sarebbe aspettata.
– N… non lo so, cioè io, sono uscita e poi adesso… – s’interrompe – Ma, che succede! Fatemi entrare, ho freddo! – grida con la voce rotta dal pianto.
– Guarda, io voglio starne fuori.
– Anche tu! Ma fuori da che?
– Fuori e basta, non mi voglio intromettere in questa cosa e, se devo essere sincera, ti confesso che non mi dispiace affatto.
– Ma che dici?
– Tanto lo so che ti sto sulle palle, mi vorresti fuori dai piedi per prenderti Stefano.
– Stefano? Ma, no!
– A chi credi di darla a bere, con quell’aria da santarellina!
– Guarda davvero…
– Ora basta, chiudo.
– No, Veronica, ti chiedo scusa se mi sono mostrata insofferente verso di te, ma io e tuo marito siamo solo amici. – dice Francesca in un fiato.
– Ho detto basta, e non chiamare più, tanto Stefano non ti risponde.
– No, non chiudere! Dimmi almeno chi…
Silenzio.
Francesca asciuga gli occhi dalle lacrime con il dorso della mano.
Trascinandosi la gamba ferita si sposta lungo il marciapiede che costeggia i muri della villa fino ad arrivare sotto la porta finestra che dà sulla sala da pranzo.
Sono tutti là, ridono, mangiano, dov’era seduta lei hanno tolto la sedia, anche piatti e posate non ci sono più, sul suo segnaposto non c’è scritto niente.
– Fatemi entrare! – urla sbattendo i pugni sul vetro – Che vi ho fatto??
Nessuno la sente o forse, semplicemente, la ignorano.
L’angoscia le stringe la gola. – La temperatura scenderà ancora, morirò assiderata se non troverò in fretta una soluzione. Certo, se non avessi chiuso il SUV di Stefano, avrei almeno un posto dove stare e poi domattina manderei a farsi fottere questi idioti. – pensa.
Poi un’idea le attraversa la mente.
Si toglie dalla porta finestra, proprio mentre oltre il vetro stanno alzando in un brindisi, calici colmi di un dorato chardonnay.
Torna verso i gradoni, scende ancora verso il giardino e camminando sul prato comincia a costeggiare la casa. Il ginocchio si è gonfiato e non riesce più a piegarlo, ma un mezzo passo dopo l’altro riesce ad arrivare sul retro.
– Ecco, qui dovrebbero esserci gli ingressi di servizio.
Poco più avanti infatti intravede una porta, la raggiunge abbassa la maniglia ma il legno non si muove di un centimetro – Aprite! Aprite! Bastardi, aprite! – grida allora, incanalando tutta la sua frustrazione in una raffica di pugni.
Nulla accade. Nessuno sembra udirla.
Poi, all’improvviso, le luci esterne si spengono e attorno a Francesca resta solo buio e nebbia.
Un tremito incontrollabile la assale, si schiaccia con la schiena contro il muro e inizia a strisciare, la superfice ruvida delle pareti poco per volta lacera la lana dell’abito che indossa, permettendo al vento gelido d’insinuarsi ovunque.
Recupera il cellulare: userà la retroilluminazione del display per farsi luce, il chiarore le è appena sufficiente per mostrarle dove mette i piedi, poi dalla notte arriva un mormorio, prima incomprensibile.
… ninàn, la Borda
– Basta, Massimo, ti prego.
Sempre più distinto.
la liga i bei babèn cun una côrda.
– Massimo, sei un bastardo, questo scherzo è durato anche troppo.
Cun una côrda e cun una curdella,
ma non è la voce di Massimo quella
la liga i bei babèn pu la i asserra,
non è la voce di un uomo, non è una voce umana.
cun una côrda e cun una ligazza,
– Chi sei?
Silenzio.
Il cellulare vibra nella mano
Sul display un nome: Massimo.
Le mani le tremano, riesce a rispondere solo dopo alcuni tentativi.
– Massimo… Massimo, voglio entrare. – piagnucola.
– Ciao Francesca.
– Mi hai chiuso tu qui fuori?
– Sì.
– Voglio entrare! – grida la donna con tutta la voce che le è rimasta – Fammi entrare.
– Non posso.
– Come… perché… perché non puoi?
– Non lo so.
– Che, significa?
– Non lo so.
– È impossibile, deve esserci un motivo.
– Non sempre, Francesca, non sempre c’è un motivo quando tocca a te, morire.

Francesca non sa che altro dire, resta pietrificata, immobile.
Senza preavviso un sibilo attraversa l’aria, qualcosa le cade sulle spalle e la stringe al collo. Lascia cadere il cellulare, con entrambe le mani afferra quella che sembra essere una corda e tira con tutte le forze rimaste.
La corda fa un altro doppio giro, stringendo gambe e braccia, uno strattone e la donna si trova supina nell’erba.
Poi ancora quella voce.
cun una côrda e cun una ligazza,
la liga i bei babèn pu la i amazza
sono le ultime parole che sente.
Fauci acuminate aprirsi in mezzo a orride bende, le ultime cose che vede.

 

[1]  Ninna nanna, la Borda

lega i bei bambini con una corda.

Con una corda e con una cordicella,

lega i bei bambini e poi li stringe,

con una corda e con un legaccio,

lega i bei bambini e poi li ammazza.

Ecco la minaccia che vogliono tenere segreta

 

MartelloSecondo alcuni studi si tratterebbe di una delle principali minacce per la nostra salute. Tenuta sotto traccia per interessi plurimiliardari, legati alle multinazionali del fai–da–te e della ferramenta.

Parliamo della massa innestata su un manico che ne consente l’impugnatura; il tutto atto a fornire l’energia cinetica per il colpo, noto come Martello, che potrebbe comportare irreversibili lesioni celebrali, muscolari e fratture ossee portando in alcuni casi alla morte; fasce più a rischio individuate: le donne e i bambini.

Tutto noto e documentato in ambito scientifico, ancor prima che questa tecnologia, testata per secoli nelle caverne, divenisse di uso comune negli uffici e nelle abitazioni.

Gli studi evidenziano effetti definiti “letali”, e tenuti nascosti per salvaguardare i lauti profitti delle aziende del bricolage.

A oggi il martello è riconosciuto come la prima causa di sterilità maschile a seguito della arcaica convinzione che in certi casi sia “meglio una martellata sulle palle”

Esiste un documento, sconosciuto all’opinione pubblica, redatto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, denominato Protocollo Hammer, sugli effetti biologici, sui danni alla salute e sulla mortalità  provocato dall’uso eccessivo e improprio del martello. Il documento è classificato Top Secret e i suoi contenuti non sono divulgati.

Ma quali sarebbero i rischi effettivi derivanti dall’uso del martello?

Un coinvolgimento dei processi biologici relativi a:

l’utilizzo corretto delle falangi e delle dita nel loro complesso

E ancora, si sono osservati danni su scatola cranica e cervello. Per non parlare dei piedi e delle gengive (ti prendo a martellate sulle gengive).

I dati sono più che allarmanti e le previsioni, se possibile, ancora peggiori, se si proseguirà a questo ritmo, con questa diffusione dissennata e incontrollata dei martelli.

Nel 2002, 36 mila muratori e carpentieri hanno firmato il documento comune denominato  l’Appello di Thor.

Dopo dieci anni, questo documento è stato rilanciato e mette in guardia in particolare contro l’uso del martello.

Inutile osservare che in Italia l’Appello di Thor ha trovato scarso ascolto, quindi come proteggerci da una minaccia così letale e subdola?

Queste le indicazioni.

1) Non fare usare i martelli ai bambini, nemmeno in caso di emergenza.

2) Non mettere MAI in pratica il detto “meglio una martellata sulle palle”

3) Evitare di colpire chiodi, tasselli e simili con il martello cercando prima di convincerli a introdursi nei muri da soli.

4) Non tenere il martello in tasca dei pantaloni, nel taschino della camicia o nella giacca che si indossa.

5) DOPO AVER LETTO QUESTO ARTICOLO CONFERIRE I MARTELLI NELLE APPOSITE DISCARICHE: NON LANCIARLI DA FINESTRE, BALCONI O AUTO IN CORSA.

f.m.

Esperienze in Giallo 2014

non svegliarmi 2Il mio racconto Non svegliarmi è in finale alla 17^ edizione del concorso letterario Esperienze in giallo di Fossano.

Se siete in zona vi aspetto a Fossano l’8 novembre alle ore 18.00 presso la Chiesa del Gonfalone.

La premiazione inizierà alle 18 e 30

Questo il sito della manifestazione

http://www.esperienze.it/index.php

esperienze

 

Mr. Hugo e Doctor Kane


Quale invisibile relazione lega Victor Hugo, scrittore di fine ‘800, a Bob Kane, geniale ideatore di Batman? Cosa ha in comune Gwynplaine, protagonista del romanzo L’uomo che ride, con un pericoloso criminale che scorrazza per le strade di Gotham?

Apparentemente nulla, a meno che il criminale in questione non sia il Joker: entrambe i personaggi hanno il volto deturpato da un ghigno perenne che deforma la loro espressione indipendentemente dal loro stato d’animo. Ma se è vero che la somiglianza più evidente tra i due si ferma all’aspetto, è proprio quest’ultima che, nella rappresentazione della più classica delle metafore di Pirandello, fa da contrasto alle loro personalità, assolutamente contrapposte. È proprio attraverso quella maschera permanente, calata dal destino con meccaniche differenti sul volto dei due, che la sofferenza interiore di Gwynplaine viene esaltata; così come i crimini perpetrati dal Joker vengono avvolti da un aurea di sulfurea diabolicità che poco hanno a che fare con l’illegalità pura e semplice. In entrambe i casi, la percezione della realtà viene modificata in maniera sostanziale attraverso la menomazione fisica dei due personaggi.

Proprio grazie all’intuizione avuta da Kane di riprendere l’aspetto di Gwynplaine – basandosi sull’interpretazione data dall’attore Conrad Veidt – e rimodellarlo attorno alla figura del criminale, il Joker assume uno spessore che di fatto lo rende uno dei cattivi più amati del panorama fumettistico, consentendogli di attraversare indenne decenni di pubblicazioni, fornendo ad autori e sceneggiatori molteplici chiavi di lettura nonché spunti fondamentali per le indimenticabili interpretazioni di Jack Nicholson e Heat Legder sul grande schermo.

Spesso ci sfuggono gli aspetti che rendono grande, aldilà di implicazioni morali, un eroe o un cattivo ma se osserviamo attentamente ci accorgiamo che più che nell’originalità di un idea la forza di un personaggio sta nelle radici dell’idea stessa.

 

L’uranio a Casteldebole

bologna-logo-2012[1]Di sicuro avete presente quei telefilm (americani, sì, americani) dove c’è un vecchietto che abita in una casupola in mezzo al proprio campo. Poi una mattina arrivano in limousine nera dei tizi vestiti di scuro con gli occhiali a specchio e gli offrono una cifra indecente per comprare proprio quella casupola con tutto il campo annesso.

Il vecchietto non ha nemmeno un dollaro per arrivare al giorno dopo, ma quella è la casa di suo padre e del padre di suo padre e del padre del padre… per farla breve ringrazia il dottore, rifiuta l’offerta e va avanti.

I tizi vestititi di scuro insistono, prima con le buone, poi con le cattive nel tentativo di convincere l’umarell in questione a mollare, e nessuno capisce perchè di fronte a così tanti soldi non molli quella catapecchia e tanto meno perchè i tizi suddetti la vogliano così intensamente.

Di solito prima del secondo stacco pubblicitario, si scopre che sotto quel campo c’è un giacimento di petrolio o uranio o cose del genere.

Ecco vista da qui, da Latina, a quasi cinquecento km dalle due torri, la vicenda del Bologna FC sembra uno di quei telefilm.

Fino a ieri sera il Bologna FC era una società senza soldi, retrocesso e che per mancanza di soldi ha ricevuto un -1 in classifica: termine ultimo per non fallire il 4 ottobre, data stabilita per l’aumento di capitale , aumento che NESSUNO dei soci aveva, fino a ieri sera, intenzione di sottoscrivere.

Poi arriva il tizio vestito di nero (americano, sì, americano), non in limousine nera ma su un frecciarossa, e fa l’offerta indecente, l’offerta che nessuno in quelle condizioni rifiuterebbe mai.

Invece.

Invece tutti a lì a dire “ma chi glie lo fa fare?” “ma ce li avrà poi i soldi?” “questa è la società di mio padre del padre di mio padre…” “stiamo uniti”…

Fin qui tutto come da copione, solo che questa volta  l’uomo vestito di scuro usa solo le maniere buone: tira fuori il cash necessario per opzionare l’aumento di capitale.

Non l’avesse mai fatto, l’atto di coerenza (10401848_672286756176321_794122039_n[1]questa sconosciuta) dell’americano scatena Zanetti e l’aumento di capitale lo fa lui.

Non ci avete capito niente vero? Beh siete in ottima compagnia.

Se devo dirla tutta, io preferisco sia andata così, questione di sensazioni, questione di pelle, ma un dubbio mi sorge: avranno scoperto l’uranio sotto Casteldebole?

Restiamo sintonizzati.