Franco Limardi: noir a tempo pieno

di Fabio Mundadori

Prosegue in grande stile il mio spazio dedicato alle interviste. Questa volta è il turno di Franco Limardi. Franco grazie per essere qui con noi, si parte con la prima domanda!

Chi è Franco Limardi quando non fa lo scrittore?

Uhmm… domanda difficile, anche perché lo scrittore è sempre all’erta, nel senso che nella vita quotidiana, basta una parola, un’immagine, per far scattare immediatamente l’interruttore e portarmi a fantasticare su quegli elementi, a chiedermi come potrei utilizzarli in una storia su cui sto già lavorando o se quello spunto, valga la partenza di una nuova storia. Per il resto credo di essere un compagno di vita sopportabile, un padre cauto, un amico affidabile e discreto, un passabile insegnante…

Cosa ti ha portato a scrivere storie noir o comunque “di genere”?

In realtà autore “noir” mi ci sono trovato, nel senso che il mio primo romanzo “L’età dell’acqua” era stato scritto in modo spontaneo e per nulla pianificato. Semplicemente mi era venuta in testa quella storia in cui c’era la violenza, in cui c’era la città con la sua disperazione, c’erano i miei personaggi assolutamente metropolitani e poi, quando la casa editrice, la “DeriveApprodi” mi mandò il bozzetto della copertina con la frase che avrebbe accompagnato il lancio del romanzo, scoprii che ero “L’autore emergente del noir”: ho sorriso, mi sono detto “Beh, non lo sapevi, ma sei noir” e poi ho pensato a continuare la storia su cui stavo lavorando in quel periodo. Per gli altri due romanzi, il mio lavoro è stato più consapevole, nel senso che sapevo di utilizzare stilemi e topos del genere, ma non mi sono mai seduto alla scrivania dicendo “bene…adesso qui ci mettiamo il locale fumoso e losco in cui il protagonista incontra il suo informatore” o cose del genere. Dico semplicemente che mi piace raccontare storie che leggerei o vedrei volentieri al cinema, fin qui sono stati “noir”, ma non mi sento necessariamente legato a questo tipo di letteratura. Sia chiaro che non la disprezzo, non sento il peso di questa definizione, se qualcuno me l’affibbia; mi ritengo, più onestamente, libero di raccontare

ciò che mi va, se domani sarà una fiaba…beh, va bene anche quella. Mi accorgo però di non aver risposto completamente alla tua domanda; ho sempre amato un certo tipo di letteratura e di cinema, in cui, dietro a storie fosche, disperate, metropolitane, si nascondevano delle riflessioni sulla condizione umana, sull’esistenza.

Con i personaggi principali dei tuoi romanzi ho notato che hai un rapporto abbastanza singolare: raramente sopravvivono all’ultimo capitolo. Esiste un motivo particolare per questa scelta?

Voglio bene ai miei personaggi…e il riscontro di pubblico che hanno avuto alcuni di loro, suggerirebbe di serializzarli, di farli diventare protagonisti di più romanzi, però devo confessare di temere la serializzazione, perché ho paura che il personaggio perda profondità e sfaccettature del carattere, per diventare una figura statica e piatta, capace di dire e fare sempre le stesse cose. Mi devo divertire quando scrivo, la costruzione di un carattere con elementi diversi mi porta anche ad amare di più i miei personaggi; è come

se conoscessi una persona nuova e la scoprissi passo dopo passo. Forse, penso anche che un protagonista seriale, non possa avere un carico di drammaticità adeguato, nel senso che a me piacciono i personaggi che si trovano di fronte a situazioni forti, a scelte drammatiche e in queste circostanze, svelano il loro essere più profondo; se io mettessi di fronte a una serie di drammi sempre lo stesso personaggio, probabilmente l’effetto scivolerebbe facilmente nel comico; il lettore potrebbe anche dire “E va beh…ma non ci credo, tutte a lui capitano!”

In molte delle storie che scrivi l’ambientazione sembra assumere un ruolo di secondo piano; spesso non riporti i nomi delle città o dei paesi ed eviti qualunque riferimento toponomastico. È una scelta deliberata? E se sì, in che modo la ritieni funzionale alla narrazione?

Mi piace giocare con i luoghi. Le mie città sono vicine a quelle reali, ma non ne sono la raffigurazione fedele; cambio i nomi delle strade e delle piazze, sposto i quartieri, ma lascio elementi che possano farli ritrovare dal lettore. E’ un gioco che faccio con i lettori, ma anche il tentativo di evitare una localizzazione troppo marcata, una “regionalizzazione” se vuoi, perché il commissario fiorentino, piuttosto che il maresciallo veneto o il detective milanese, chiudono gli orizzonti del personaggio, a mio avviso, lo costringono in quel luogo e mi sembra che facciano perdere di “universalità” al personaggio. Un territorio indefinito, un luogo non luogo, concentra l’attenzione del lettore sui caratteri, sulla dimensione psicologica dei personaggi che è quello poi che m’interessa di più. Non è che poi sia così ottemperante a questa impostazione, a ben vedere, nel senso che a caratterizzare il teatro in cui recitano i miei personaggi, ci sono i loro modi di parlare, che spesso hanno tratti anche dialettali, marcati.

Il bellissimo romanzo “Anche una sola lacrima”, è uscito anche in versione audiolibro. È stata una scelta editoriale che resterà isolata o pensi che il destino dei libri, almeno nell’ambito del largoconsumo, sia al di fuori della dimensione cartacea ?

Non sono contrario né agli audiolibri, né agli e-book, anche se personalmente, come lettore, ho bisogno della carta e delle pagine da sfogliare. Credo che per quanto affascinanti possano essere queste “versioni” diverse del libro, l’oggetto fatto di carta e inchiostro non possa essere sostituito, non completamente. Per quanto riguarda i miei romanzi, dovrebbero uscire presto gli e-book sia di “Anche una sola lacrima” come de “I cinquanta nomi del bianco”.

Nello stesso romanzo compare per la prima volta Lorenzo Madralta . Quanto c’è di te in questo riuscitissimo personaggio?

Tutto! Non è vero…è che sono geloso di Madralta, perché è amatissimo dalle lettrici; se fosse “sulla piazza” farebbe una strage e così lo rincorro nella vana speranza di rubargli un pochino del suo appeal. Adesso ti rispondo seriamente, ma evitando, spero, i luoghi comuni; credo che l’autore debba identificarsi con i suoi personaggi, debba dare loro autenticità e per farlo, sia costretto a dare un po’ di sé ad ognuno di loro, almeno a quelli più importanti, a dare pregi e difetti, punti di vista, convinzioni e valori di una persona realmente esistente. Poi il personaggio può permettersi di non avere le debolezze e le cadute della quotidianità, quelle che, invece, colpiscono l’autore. Comunque devo essere sincero, non so quanto ci sia di me in questo personaggio, bisognerebbe chiederlo a chi mi conosce, forse.

Domanda “tormentone”: se ti chiedo di pensare al libro che hai letto e che ti è piaciuto di più, qual è “di getto” il primo che ti viene in mente e perché?

Non lo so. Me ne vengono in mente contemporaneamente almeno dieci, cento…forse sarebbe più facile dirti quello che non mi è piaciuto…mi dispiace Fabio, mi arrendo, non riesco a indicartene uno solo.

Nel tuo percorso di scrittore hai pubblicato con molti editori di varia caratura. Puoi dirci cosa cambia nel rapporto scrittore editore in funzione delle dimensioni di quest’ultimo?

Per la mia esperienza, devo dirti che non ho notato enormi differenze; forse con una casa editrice più grande, hai maggiore visibilità, più attenzione da parte dei media, però sei in compagnia di tanti altri scrittori e alla fine, devi accontentarti, diciamo così, del supporto che ti possono dare. Una casa più piccola, ti dà più spazio, ma poi bisogna vedere effettivamente le “forze” di cui dispone.

Dell’ultimo tuo romanzo (ma il primo tuo lavoro che ho avuto il piacere di leggere) “I cinquanta nomi del bianco”, mi ha colpito la prosa che, senza cadere in un lessico forzato e ricco di orpelli, offre una narrazione ricca di sfumature ma sempre scorrevole. Come sei riuscito a raggiungere questo risultato, tenendo presente che leggendo alcuni scrittori (anche molto noti) potrebbe sembrare che per scrivere un romanzo giallo o noir sia necessario esprimersi come in un telegramma?

Anche a me piace l’essenzialità; non i telegrammi, ma uno stile asciutto e per questo faccio sempre un grosso lavoro di rilettura e “dimagrimento” del testo. Devo dirti che ho il terrore della retorica e dell’autocompiacimento. Spesso capita di scrivere e arrivare in fondo ad un periodo, ad una pagina e pensare “Cavolo! Ma ‘sta roba qui è proprio bella!”; quando mi capita, mi godo la sensazione del momento, la lascio lì a sedimentare, poi ci ritorno dopo un po’ e spesso l’impressione, alla rilettura, cambia. Sono molto attento a togliere il superfluo e l’enfatico, ma non mi piace nemmeno una pagina, come dire, minimalista, nel senso peggiore del termine. Credo che certe situazioni, certe emozioni vissute dai personaggi, debbano essere descritte nel modo più preciso possibile; talvolta è necessaria una sola parola, “la” parola, altre volte hai bisogno di un accordo, parlando in termini musicali, di una buona frase con una nutrita aggettivazione, per esempio.

La domanda in chiusura non può che riguardare i progetti futuri. Nei mesi estivi sulla tua pagina dell’ormai onnipresente facebook davi annuncio della chiusura dell’ultima stesura del tuo nuovo romanzo. Puoi già darci la data di uscita? Hai già cominciato a lavorare a qualcosa di nuovo?

Data di uscita? Per il momento proprio non lo so (spero di saperlo presto anche io). Purtroppo i “tempi editoriali” sono diventati tempi biblici. Appena saprò darò l’annuncio al mondo, cioè a Facebook. A parte gli scherzi non lo so davvero. Per quanto riguarda i progetti, ne ho un bel po’ in cantiere: due che viaggiano in parallelo, anche perché sono a stadi di lavorazione diversi e un altro che è ancora alla fase delle ricerche e documentazione; spero di non spaventare qualche possibile lettore, con tutta questa roba…

La qualità non ha mai spaventato nessuno Franco! Grazie della piacevolissima “chiacchierata”

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