di Marco Ferrara.
Una forma di vita vegetale aliena in grado di produrre replicanti o lo speculum delle nostre paure più profonde? E la loro silenziosa invasione, che tanto somiglia alle pandemie frutto di aberrazioni di laboratorio, è davvero il tentativo di colonizzazione del nostro pianeta o non è più una parabola profetica sulla globalizzazione, sulla omologazione del pensiero, e sulla anedonia affettivo-valoriale di fine ‘900?
Negli anni in cui Hollywood produceva il massimo sforzo (creativo e di budget) nel confezionare kolossal storici tronfi e patinati come I dieci comandamenti un regista talentuoso, ma a torto considerato dalla critica un abile artigiano forgiatore di B-movies, come Don Siegel resta folgorato dal soggetto di un romanzo di fantascienza nera di Jack Finney.
La trama è semplice ma ha una carica di tensione crescente ed un climax ansiogeno che ne fanno un autentico capolavoro.
Il Dottor Bennell (uno straordinario Kevin Mc Carthy) tornato nella cittadina californiana di S. Mira si accorge ben presto che qualcosa sta cambiando.
Gli amici di sempre non sono più gli stessi. Appaiono svuotati d’umanità e di sentimenti. Bennell incontra Becky, una sua vecchia fiamma, ed insieme si renderanno molto presto conto della drammatica verità. Dei mostruosi baccelli alieni sono in grado di ricreare alla perfezione le sembianze umane creando, dalle loro vittime a cui sottraggono la volontà durante il sonno, degli spietati replicanti.
Inizia un tourbillon di fughe, di incontri ravvicinati con amici già replicati, fino alla scoperta di un enorme deposito di baccelli destinati a colonizzare l’intera America.
Bennell naturalmente non verrà creduto ed è pronto a rassegnarsi al destino di Cassandra. E questo sarebbe dovuto essere il finale del film – che, in questa guisa, avrebbe assunto i toni di un fanta-noir – se la produzione non avesse imposto un diverso finale.
Vivisezionato e psicanalizzato alla bisogna è stato interpretato ora come favola anticomunista ora come favola antimaccartista. Probabilmente invece L’invasione degli ultracorpi è soprattutto un film sull’amore, sull’elaborazione della perdita, sulla società massificante che ci terrorizza perché in grado di farci diventare come gli altri. In un processo inconsapevole al quale spesso non riusciamo ad opporre resistenza critica (per questo i baccelli assorbono la mente durante il sonno?).
Insomma una parabola sull’uomo e sui repentini mutamenti della società contemporanea, tanto più mostruosi perché inconsapevoli o peggio spacciati per i salmi di una nuova liturgia da dedicare all’unico Dio sul cui altare stiamo sacrificando tutti gli altri valori: il potere.
Molto tempo prima di Pietro Maso. O di Erika e Omar