Quale invisibile relazione lega Victor Hugo, scrittore di fine ‘800, a Bob Kane, geniale ideatore di Batman? Cosa ha in comune Gwynplaine, protagonista del romanzo L’uomo che ride, con un pericoloso criminale che scorrazza per le strade di Gotham?
Apparentemente nulla, a meno che il criminale in questione non sia il Joker: entrambe i personaggi hanno il volto deturpato da un ghigno perenne che deforma la loro espressione indipendentemente dal loro stato d’animo. Ma se è vero che la somiglianza più evidente tra i due si ferma all’aspetto, è proprio quest’ultima che, nella rappresentazione della più classica delle metafore di Pirandello, fa da contrasto alle loro personalità, assolutamente contrapposte. È proprio attraverso quella maschera permanente, calata dal destino con meccaniche differenti sul volto dei due, che la sofferenza interiore di Gwynplaine viene esaltata; così come i crimini perpetrati dal Joker vengono avvolti da un aurea di sulfurea diabolicità che poco hanno a che fare con l’illegalità pura e semplice. In entrambe i casi, la percezione della realtà viene modificata in maniera sostanziale attraverso la menomazione fisica dei due personaggi.
Proprio grazie all’intuizione avuta da Kane di riprendere l’aspetto di Gwynplaine – basandosi sull’interpretazione data dall’attore Conrad Veidt – e rimodellarlo attorno alla figura del criminale, il Joker assume uno spessore che di fatto lo rende uno dei cattivi più amati del panorama fumettistico, consentendogli di attraversare indenne decenni di pubblicazioni, fornendo ad autori e sceneggiatori molteplici chiavi di lettura nonché spunti fondamentali per le indimenticabili interpretazioni di Jack Nicholson e Heat Legder sul grande schermo.
Spesso ci sfuggono gli aspetti che rendono grande, aldilà di implicazioni morali, un eroe o un cattivo ma se osserviamo attentamente ci accorgiamo che più che nell’originalità di un idea la forza di un personaggio sta nelle radici dell’idea stessa.